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Il Grande Vetro
e Marcel Duchamp

 

 

 

 



Nel 1917, Marcel Duchamp firmò un orinatoio con il nome R. MUTT e lo intitolò Fountain.
Una firma su un oggetto diventa l'autore; l'oggetto con un titolo e una firma diventa una scultura; la sua collocazione in una mostra di quadri e sculture avrebbe trasformato quell'oggetto in un'opera d'arte.
"Fountain" venne rifiutata dalla giuria dell'Esposizione d'arte di New York, giuria della quale era membro lo stesso Duchamp. Ma nella storia dell'arte iniziava un capitolo nuovo.
L’originale dell’orinatoio è andato disperso; nel 1964 venne replicato in multiplo.
R. Mutt non è l’equivalente di John Smith; ha un significato preciso.
E anche il titolo Fountain.
Seguiamo la lettura (l’interpretazione) dell’opera e del nome utilizzando un libro di Maurizio Calvesi, Duchamp invisibile, edito nel 1975 da Officina Edizioni.
E’un libro di 416 pagine, gran parte delle quali dedicate ad una delle opere più enigmatiche e complesse di Marcel Duchamp: Il Grande Vetro. Impossibile, qui, riassumerne i significati.
Fountain - scrive Calvesi - è un “oggetto chiaramente a doppio senso, essendo “urina” e “fontana”, nel vocabolario degli alchimisti, sinonimi. (…) Due nomi della materia da cui si estrae, ovvero zampilla, il mercurio, oppure indicano il mercurio stesso, che non è distinguibile, nel monismo alchemico, dalla materia: né questa, come sappiamo, è sostanzialmente distinguibile dal vaso che la contiene e che, come la materia stessa, è utero, matrice, sorgente. Circostanza assai precisa e interessante è che Flamel chiama tra l’altro “Urinal” il fornello-vaso degli alchimisti, che a sua volta Bernardo Trevisano descrive come fontaine; e il vaso va anche sotto il nome, proprio, di “fontaine de Flamel”.
L’argomento alchimia “impregna” tutte le 262 pagine dedicate al Grande Vetro. Probabile allora che altre opere di Duchamp siano state pensate con linguaggi e forme alchemiche. Così la Fontana. A posteriori è facile dedurre le somiglianze, gli accostamenti, tra zampillo di urina e zampillo di fontana. Putti che fanno pipì decorano innumerevoli fontane settecentesche dei giardini di mezza Europa. Ma questo è un pensiero semplificatore. Per il momento, se ne deduce che non ci si può mettere davanti ad un'opera, qualunque essa sia, sprovvisti dei dati necessari.
La firma R. Mutt rende l’oggetto ancora più intrigante. L’alchimia qualcosa svela. Calvesi non esclude che questa firma “debba potersi leggere Mutt Er, che suona mutter, ovvero madre. Flamel dice che il fornello-vaso degli alchimisti contiene il “matraccio” (matras) ed è, quindi, il ventre, la matrice”. Ecco, allora, l’idea di madre “cui è ben connessa” - scrive Calvesi,- “nella tradizione ermetica la stessa materia (mater-materia, madre terra, mem ecc.)”. (…) La materia prende poi il nome di Moot che indica la materia in quanto “mota”, fango, immondizia, escremento”.
La provocazione duchampiana, ora che abbiamo scoperto in essa significati profondi, “cessa” di essere uno scandaloso orinatoio? Duchamp ha davvero trasferito - al pari della pietra filosofale (cioè la sapienza) che trasforma in oro le cose vili - gli oggetti d’uso comune “nella sfera della contemplazione e della bellezza, cioè nei significati ”?
Serve, comunque, il luogo della contemplazione. All’interno del quale anche un oggetto qualsiasi (apparentemente qualsiasi), posto su un piedistallo, assume valore d’opera d’arte.
La Fontana di Duchamp è uno dei “pezzi” più zampillanti che la graphic design ha abbondantemente utilizzato per illustrare copertine di dischi, libri e riviste. Un oggetto pronto (ready made) per altri oggetti. Duchampianamente in regola.