Ho
incontrato la pittura di Vilhelm Hammershoi
sul mensile Art e dossier (n. 174, gennaio 2002, editore Giunti).
Non la conoscevo. Hammershoi nasce a Copenaghen il 15 maggio 1864. Muore
nel 1913 per un cancro alla gola. La nostra storia dell'arte, intesa come
studio scolastico, non arriva così a nord, eccezion fatta per lo
straordinario norvegese Edvard Munch (1865-1944), e forse per qualche
altro che adesso non ricordo. Hammershoi dovrebbe stare tra i maestri
della nostra storia dell'arte scolastica. E' però importante conoscerlo
anche dopo. Il bell'articolo di Jens Peter Munk, su Art e dossier,
guida queste mie riflessioni. Nelle enciclopedie consultate non ho trovato,
su Hammershoi, che poche righe; quegli strani trafiletti cronologici,
senza commento. Sulla copertina di Art e dossier c'è il
richiamo all'articolo, con il titolo: "Il realismo malinconico di
Hammershoi". Il titolo dell'articolo è: "L'ultima luce
del tramonto". I due titoli riassumono bene lo stile di questo pittore
"domestico", che però riesce a dare forza a questa malinconia
(o è il silenzio di certi luoghi o di certi pensieri?) e vitalità
alla sua pittura monocroma. Insomma, Hammershoi è un pittore affascinante.
Usando un ossimoro stantio, con casualistico riferimento a Munch, direi
che il suo silenzio urla, perché non lascia indifferenti e col
tempo (basta prolungare per pochi attimi il guardare una sua opera) quel
silenzio si sente come un'eco, quella luce tenue diventa luminosa e corposa,
quelle stanze vuote - che ritrae spesso - si riempiono di esistenze vissute
e viventi.
Hammershoi è "domestico" soltanto perché i suoi
soggetti sono la sua famiglia (la moglie, la sorella, il fratello, la
madre) e le case nelle quali ha abitato. Una pittura per sé, come
un diario, che uno lascia volutamente aperto, per un mostrarsi indiretto.
Pochi i ritratti su commissione. Il debutto di Hammershoi è banale,
nel senso che è banale la risposta negativa che una limitata (intellettualmente)
giuria dà ad un'opera che Hammershoi, ventunenne, presenta ad un
concorso. E' la solita storia, applicabile ai giovani talenti di ieri
e di oggi e di domani: pittori, musicisti o scrittori non fa differenza.
L'ottusità è riproducibile senza tecnologia. L'opera che
la giuria non ha "compreso" si intitola Giovane ragazza.
E' il ritratto di Anna, la sorella del pittore. Realismo. Nel senso del
proporre le forme del reale nella loro compiutezza, anche nella tecnica
pittorica. Un'opera troppo moderna per la giuria. E in effetti è
moderna, e proprio per questo da premiare, all'epoca (1885). Ma quand'è
che un pensiero è moderno? Per la sua attualità, o per il
suo precorrere il tempo, o per il suo andare contro la tendenza dominante?
Difficile mettere le tre cose insieme (che certo sono di più);
Hammershoi ci riesce.
Da Art e dossier:
Una delle poche volte che Hammershoi si pronunciò sulla propria
arte (in un'intervista rilasciata alla rivista "Hver 8. Dag"
nel 1907) diede un'idea assai chiara sullo spunto di partenza dei suoi
quadri: «Quello che mi fa scegliere un soggetto sono spesso le sue
linee, quel che io chiamo il carattere architettonico del quadro. E poi,
naturalmente, la luce, che importa molto. Ma sono le linee la cosa che
amo di più. Il colore non è secondario, non mi è
indifferente il colore delle cose, lavoro moltissimo per ottenere un'armonia.
Ma quando scelgo un soggetto guardo prima di tutto alle linee».
Osservo la Giovane ragazza. Cerco il "carattere architettonico
del quadro". I maestri sono complicati, ma sanno spiegarsi con chiarezza.
La ragazza è un poco spostata a destra (di chi guarda), la porta
è uno sfondo che la inquadra perfettamente in un suo centro. La
ragazza è seduta, la mano destra sulle gambe, la mano sinistra
sulla cassapanca in posizione laterale. Jens Peter Munk ci informa che
Hammershoi ha preso l'idea di questa posa dalla Betsabea al bagno
di Rembrandt.
La modernità della composizione spostata non esclude le regole
della composizione classica. Infatti, la mano destra è il segmento
di una diagonale che comprende e attraversa la gamba, la spalla e raggiunge
l'angolo della porta; l'altra diagonale è suggerita dalla posizione
della mano sinistra. Ma al di là della struttura (che vale anche
per chi suona o scrive), stabiliti gli spazi da occupare, resta una ricerca
del senso, anche quando non ci viene di cercarlo.
Jens Peter Munk intende la posizione della mano sinistra come "un
invito discreto allo spettatore a entrare nella sua sfera distanziata
e introversa". Sembra che la ragazza voglia farci sedere accanto
a lei.
A proposito del cercare un senso (non lo cerchiamo?), un significato palese,
consolatorio per noi spettatori, Hammershoi così parla dei suoi
colori:
«Perché adopero pochi colori sommessi? Veramente non lo so.
Non ne so dire niente. Ma in ogni caso è stato così sin
dalla prima volta che ho esposto. Forse conviene chiamarli pochi colori
neutri. Io penso che meno colori ci sono in un quadro tanto meglio funziona
nel senso coloristico» (intervista del 1907).
Ecco fatto il senso. I veri maestri sanno spiegare "le cose"
perché sono autentici. L'autenticità disorienta.
Bisognerebbe parlare di tutti i quadri di Hammershoi, trovare qualcuno
che possa decifrarne i piccoli quotidiani enigmi che in essi sono rappresentati
sotto forma di luci, ombre, inquadrature o nelle pochissime suppellettili.
Mi fermo alle stanze. In mezzo alle stanze. Apparentemente uguali: porte
aperte dalle quali si intravedono finestre a rettangoli; porte chiuse
con finestre subito accanto.
Jens Peter Munk scrive che "Nel primo decennio del Novecento il fascino
delle stanze diventò per Hammerhoi quasi un'ossessione".
Osservo le stanze vuote. Mi piacciono. Mi coinvolgono, ma non so spiegarmi.
Penso che siano "arredate" di storie anche mie (o vostre, per
voi, per voi stessi), poi leggo (sempre su Art e dossier) un'intervista
di Hammershoi e le mie stupite sovrastrutture mentali cadono a terra e
si frantumano: inservibili prima, inservibili adesso che sono in cocci.
In quelle stanze, nei bellissimi ritagli di ombre e luci, in quei fondali
che si aprono chissà verso dove io vedo anticipazioni: la metafisica
dechirichiana, il surrealismo magrittiano, il dadaismo concettuale duchampiano.
Invece i miei riferimenti sono sbagliati e, peggio ancora, inutili. Prima
cercavo qualcuno capace di decifrare i piccoli enigmi a proposito dei
quadri di Hammershoi. L'ho trovato. E' Hammershoi stesso, che così
dice, nell'intervista del 1907: «Come mai dipingo tutti questi interni?
Non lo so, mi è venuto così. E poi i quadri con gli interni
vanno di moda per il momento, tutti li vogliono. Quando dipingo un paesaggio
ho problemi a venderlo
Ho sempre trovato un salotto del genere [cioè
senza mobili] molto bello, anche se non c'è nessuno dentro, anzi
forse perché è vuoto».
Giorgio De Chirico, a proposito dei suoi cavalli, molti anni dopo avrebbe
detto la stessa cosa. Perché dipingo cavalli, questo tipo di cavalli?
Piacciono. Si vendono bene.
Consola il fatto che c'è stata una prima stanza vuota, dipinta
senza commissione, senza pensare alla vendita. In fondo, non è
male comprare (meglio se è un biglietto per un museo) quadri che
raffigurano stanze vuote "riempite" di porte e finestre. Stanze
con porte aperte, attraversate dal pittore, da sua moglie, dai parenti,
dagli amici. Stanze con porte chiuse e finestre che lasciano entrare la
luce, proiettata sul pavimento. Porte chiuse, ma che in diversi momenti
della giornata si aprono, si richiudono e si riaprono. Quelle stanze esistono
ancora, probabile. Ci saranno televisori accesi, ronzii di frigoriferi
e di computer. Forse. Anche parole tra persone. Forse. In un momento di
"verismo malinconico" quelle stanze, oggi piene di oggetti,
mobili e persone (forse) potranno apparire vuote ad un osservatore attento
all'ultima luce del tramonto (come nel titolo dell'articolo). Chissà.
Resta la scoperta della pittura di Hammershoi, unica testimonianza che
riporta quelle stanze a com'erano un tempo. Non sarà che l'arte
ci è preziosa perché ha qualcosa di somigliante con la memoria?
MDN |
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