Il celebre
Grido di Edvard Munch potrebbe essere un segnale per tornare, o cominciare,
ad urlare. Con una voce interna e esterna, per sentirsi e farsi sentire.
Tornare, o cominciare, ad urlare. Non mancano i motivi per farlo.
"Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò.
Il cielo divenne all'improvviso di un rosso sangue
I miei amici
proseguirono il cammino, mentre io, tremando ancora per l'angoscia, sentii
che un grido senza fine attraversava la natura". Così
scriveva Edvard Munch nel 1892.
Una natura che è per nostra scomoda semplificazione
l'esistenza. O una porzione dell'esistere, quella che ogni tanto è
l'altra faccia di una luna che invece si mostra. Insomma, è quando
si dice che non va poi tanto come dovrebbe andare. Questa natura trasformata
in territorio del telecomando e del carrello ha anch'essa il suo urlo.
A noi (di Segnal'etica, ma non siamo soli) l'urlo di questa natura sembra
che assordi. Se non fosse un'etichetta troppo impegnativa saremmo ben
lieti di definirci (noi di Segnal'etica) munchiani. Bisogna meritarselo.
Edvard Munch dipinse il Grido nel 1893. Sarà il Novecento a farne
un'immagine del sé smarrito, angosciato, impaurito. E' un urlo
che diventa corpo e paesaggio, nelle forme che si amalgamano in un prolungamento
sinuoso, come a diffondersi con forza nell'aria. Corpo, acqua, cielo,
in un tutt'uno che amplifica il grido. Per contrasto, ecco il taglio delle
linee dritte del ponte e della balaustra, una strada prospettica che conduce
a due figure abbozzate, grigie, indifferenti. Un contrasto che evidenzia
l'espandersi del grido, che coinvolge tutto. Un grido individuale, staccato
dalle due figure di fondo, portato in primo piano per una volontà
- malgrado tutto - di esistere. Esistere individuale, però concreto,
non immaginario; le due navi, in lontananza, non sono "qualcos'altro",
sono la realtà. La misura di un reale che ci costringe ad un grido.
E' anche l'urlo nostro, questo di Munch, per lo meno nelle intenzioni
di un tornare a reagire, o iniziare a farlo, per rompere il silenzio di
certe abitudini.
Su il manifesto del 27 giugno 2002, Ota De Leonardis commenta il
libro di Stanley Cohen "Stati di negazione. La rimozione del dolore
nella società contemporanea" (editore Carocci).
Il paragone è banale, ma può servire
a inquadrare la questione. Quarant'anni fa bastava la notizia di un massacro
di civili vietnamiti perpetrato dall'esercito americano per mobilitare
la protesta di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo (occidentale).
Oggi le notizie di massacri, violenze e sofferenze che i media quotidianamente
trasmettono non provocano reazioni neanche lontanamente paragonabili.
Siamo spettatori, testimoni, non attori. Siamo diventati, collettivamente,
bystanders. Forse è l'effetto cumulativo della quantità,
della varietà, della ripetizione, dell'enormità dei fatti
atroci di cui veniamo a conoscenza. Ci si fa l'abitudine. E si fa l'abitudine
alla passività e all'impotenza. Gli sforzi di capire, distinguere,
riconoscere le ragioni, e di prendere posizione, sembrano diventati vani.
Tutt'al più decidiamo individualmente di impegnarci contro una
delle tante situazioni di atrocità e di sofferenza - si tratti
del destino del popolo curdo, delle vittime delle mine o del commercio
sessuale dei bambini - ma resta una scelta soggettiva, una propensione
personale, una sorta di preferenza espressa sul mercato globale dei valori
morali. Forse, non c'è nient'altro da fare. Forse, lo scarto tra
la cognizione individuale del dolore e il suo riconoscimento collettivo,
politico, sta diventando incolmabile.
Vogliamo dire proprio questo.
Un grido può fare poco? Meglio non porsi la questione in termini
di risultato, perché l'intenzione di un grido è, per il
momento, quella di creare un'eco, una sorta di passa parola.
Facciamo nostro il Grido di Munch, pur sapendo di impossessarci anche
di un grido personale, covato e poi esploso con la pittura o urlato subito
con il dolore che colpisce tutto il corpo. Nel 1869 la madre di Munch
muore di tubercolosi. Edvard ha solo sei anni. Alcuni anni dopo muore
la sorella. Munch adulto smorza il suo grido nell'alcol.
Il Grido è tanto forte che costringe anche chi urla a tapparsi
le orecchie con le mani (come nel quadro). Forse per questo il grido ritorna
dentro, nel corpo, e lo scuote con lineamenti da vortice.
Facciamo nostro il Grido di Munch (che ne rappresenta tanti). Con le tonalità
dell'indignazione. Con le tonalità del rifiuto. Con le tonalità
della protesta. Scegliete voi la partitura. L'orecchio di qualcuno (scegliete
voi chi) potrà subirne le vibrazioni, che nell'urlo, a differenza
del rumore, sono regolari. L'urlo come suono ben organizzato potrebbe
trasformarsi in un canto. Che a noi (non solo di Segnal'etica) non dà
angoscia, ma è fantasticamente liberatorio.
MDN
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